Dobbiamo sopportare l’invenzione del dolore a peso, come quella della pizza a taglio. Ognuno ne può prendere ed usare a proprio piacimento e a seconda delle proprie necessità.
“La Morte che viene, la Morte che va, / percorre campagne, paludi, città
Non guarda al villano, al ricco od al prete: / dovunque si rechi sorride… e poi miete.
Di fronte alla Morte siamo tutti fratelli, / non c’è chi la scansi, né i brutti né i belli.
La Morte è serena, conosce il mestiere. / Soltanto il meschino le dà il bilanciere
e di un Uomo la Fine pesa e ripesa: / spingendo su un piatto ne aumenta la resa…”
Cosa penserà di me il grande Totò ora che, memore dei significati di “‘A Livella”, mi è venuto spontaneo buttare giù queste piccole rime messe male pensando alla “trasversalità” della Morte?
Uomo di ingegno e di spirito, certamente, saprà perdonarmi. Uomo intelligente e profondo, non so se saprà fare altrettanto con quanti insistentemente, tenacemente e disonestamente insistono a diffondere il messaggio di una morte di seria A e di un’altra di serie B, se non C.
Penso a Matteo, ultimo tra i morti italiani in una di quelle che il potere e gli ignavi continuano a farci credere “missioni di Pace”.
E penso all’ennesimo funerale di stato, all’ulteriore scempio di una funerale di serie A per una morte di serie A, perché avvenuta in nome della Patria.
Come se chi lavora – e muore – ogni giorno lavorando in fabbrica o in cantiere fosse lontano dalla Patria, stesse lavorando per entità astratte o, peggio, per sé stesso o “per lo Straniero”.
Nella concezione liberista, con un minimo di esegesi casereccia, chi sta producendo sta “facendo crescere”, sta dando impulso all’economia del Paese e proprio per questo sta svolgendo un ruolo “patriottico”. Seppure distante dalle idee liberiste, mi viene obbligatorio pensare che un morto in fabbrica debba essere onorato e pianto, se non di più, almeno tanto quanto quello in cima ad una torretta o all’interno di un blindato.
Eppure non è così.
Per chi governa, come per la maggior parte della gente comune, chi muore in Afghanistan è degno di onori in nome della sacralità patria, dimenticando che l’unica, vera sacralità è quella della Vita, che a sua volta deve essere degna di essere vissuta e che è un bene che accomuna tutti al di là del sesso, della religione, del colore… e del lavoro.
Perché alla fine – diciamolo una volta per tutte – andare a fare la guerra (non continuiamo a prenderci in giro con le “missioni di Pace”) in Afghanistan o altrove non è che un lavoro.
Uno sporco lavoro, ma anche ben remunerato.
Un lavoro che non conosce crisi, visto che mentre si “taglia” su qualsiasi servizio vitale, le spese militari sono sempre bene alimentate.
Un lavoro che presenta qualche rischio, certo, ma un rischio prevedibile e previsto, considerando che “andando al lavoro” armati fino ai denti, prima o poi, quelle armi si useranno e che difficilmente dall’altra parte non si farà altrettanto.
Dobbiamo sopportare l’invenzione del dolore a peso, come quella della pizza a taglio. Ognuno ne può prendere ed usare a proprio piacimento e a seconda delle proprie necessità.
Forse lo sto facendo anch’io, perché in tutta onestà – da uomo di sinistra – non posso dire di essere affranto per i militari morti in “guerre di pace” tanto quanto lo sono stato per gli operai della Thyssen (che al lavoro ci andavano innocentemente disarmati), ma vorrei cercare di dare il giusto valore alle cose, lontano mille miglia dalla retorica macho-fascista larussiana (ma anche da un fastidioso buonismo, inopportuno e di facciata, che serpeggia in certa “sinistra”) secondo la quale deve esserci per forza qualcuno che “muore di più”.
E questo – guarda caso – è chi muore in maniera funzionale al potere.
Raffaele Corte (2011)