Molta acqua è passata sotto i ponti da quel 1984 in cui Isabella Camera d’Afflitto si trovò costretta a presentare la sua traduzione in italiano di “Uomini sotto il sole” (Ghassan Kanafani, 1963) con la polizia all’esterno della libreria, in assetto antiguerriglia per prevenire eventuali intemperanze delle fazioni politiche ostili alla diffusione di un testo attribuito ad un “terrorista” palestinese.
Erano ancora tempi in cui i fatti e le persone venivano visti draconianamente suddivisi in “buoni” o “cattivi” a seconda della fazione di appartenenza, le sfumature apparivano impraticabili e i motivi di scontro erano sempre dietro l’angolo. Anche (o forse specialmente) quando fuori luogo, come in questo caso, tanto più che – paradossalmente – l’Autore era rimasto vittima anni prima di un attentato ragionevolmente ritenuto organizzato dalla parte a lui avversa.
Al di là dell’impegno politico di Ghassan Kanafani, quello che emerge da questo romanzo è l’immensità della poetica, la narrazione partecipata, il ritratto di una realtà oscura sapientemente dipinta nei toni violenti dei colori caldi (caldi davvero!).
Quello che nell’84 accomunava sostenitori e detrattori di Kanafani era l’impossibilità di immaginare il massiccio impatto con storie di immigrazione (non più, dunque, quelle di emigrazione raccontate dai nonni) che avrebbero in breve coinvolto noi tutti – inaspettato polo d’attrazione per i disperati -, anche qui con distinguo e atteggiamenti contrapposti.
Personalmente schierato dalla parte degli offesi, il mio percorso di vita e di scelte mi ha messo in contatto nel corso degli anni con storie, a volte al limite dell’incredibile, di persone in fuga o in difficoltà (iraniani, palestinesi, afghani, africani…) che in qualche modo mi hanno, se non propriamente “vaccinato”, certamente preparato al peggio.
Per questo spero di non apparire cinico affermando che, al di là della scrittura raffinata e dell’ottimo intreccio spazio-temporale (i numerosi flashback sono certamente un punto di forza narrativa del libro), il romanzo non mi ha causato quel “pugno in pancia” che aspettavo.
Lo ripeto: è una considerazione niente affatto oggettiva, ma completamente personale, che non vuole e non può togliere nulla alla penna di Kanafani.
Volendolo astrarre dal contesto storico e geografico, il romanzo appare a tratti come una sorta di apologo generazionale, di confronto tra esperienze e modi di porsi di fronte alle asperità della vita alla luce del proprio vissuto anagrafico.
Quello che accomuna le tre generazioni è la ricerca di sicurezza, soprattutto economica, per le famiglie; quello che le allontana sono i metodi di approccio, molto caratteristici: salendo con l’età si passa dalla veemenza ad una più profonda riflessività.
Malgrado il suo forte impegno personale, Kanafani non ci racconta di eroici personaggi in lotta per la libertà, ma di gente qualsiasi in fuga da una situazione che sembra quasi sospesa nell’ineluttabilità degli avvenimenti; ci presenta la rinuncia alla lotta e al riscatto delle proprie origini a vantaggio della volontà di cercare benessere in un altrove dai tratti immaginifici, da raggiungere anche rischiando la vita.
In questo intreccio di personalità, in definitiva, il vero protagonista sembra essere Abu’l Khaizuran (Canna), personaggio apparentemente realizzato, con un buon lavoro e con le giuste conoscenze e mezzi, che però è anche l’unico del gruppo ad aver pagato fisicamente le conseguenze della guerra e che forse per questo cerca di attivarsi a “prezzi stracciati” per traghettare i tre disperati verso i loro sogni.
Su di lui, oltre ai segni fisici del “prima”, resteranno impressi nella coscienza anche quelli del “dopo”, resterà il rimorso che lo rode e che tenta di alleviare abbandonando i corpi dei tre – almeno – in vista della loro meta e, soprattutto, cercando invano una risposta consolatoria alla domanda “perché non avete bussato alle pareti della cisterna?”, che forse nasconde interrogativi più inquietanti: “perché l’ho fatto?”, “perché non ho spinto questi uomini indietro, verso la loro provenienza, quella che era e dovrebbe continuare ad essere la nostra terra?”
“Perché non ho bussato alla porta della mia coscienza?”
[8 luglio 2021)