Note a margine della Prima Prova per l’Esame di Stato 2016
Queste riflessioni si riferiscono alla traccia di “tipologia D” emanata dal MIUR
per la prima prova scritta degli Esami di Stato di Istruzione Secondaria Superiore
(A.S. 2015/2016)
Quaranta anni fa (o giù di lì), un gruppo di giovani scapestrati, illusi e sognatori (tra i quali chi scrive), diede vita ad un collettivo teatrale rigorosamente “di strada”, uno strumento attraverso il quale comunicare direttamente con le genti del marciapiede: per proporre, “educare”; somministrare messaggi. Per riuscire a rendere appetibili idee più o meno corrette politicamente.
Perché quelli erano tempi “politici”: i famigerati e stupendi “anni ’70”, quelli delle P38 e delle BR da una parte e gli stessi di impensabili fermenti culturali dall’altra, quasi a voler compensare la bestialità con la grazia.
Quaranta anni fa (o giù di lì), nacque dunque un collettivo teatrale di strada, perché a quei tempi esistevano le idee – giuste, sbagliate o condivisibili che fossero – ed il loro veicolo principale eravamo noi giovani: scapestrati, illusi e sognatori. Benché la politica ufficiale non fosse ancora del tutto invisa agli occhi della gente, certamente le proposte dal basso erano quelle che entravano maggiormente nel modus vivendi della gente comune.
A quei tempi non ci preoccupavano particolarmente dei confini fisici, o delle frontiere: il sacrosanto concetto del “proletari di tutto il mondo, unitevi!” era sempre presente e ben chiaro nelle nostre menti e – per quanto possibile – nelle nostre azioni, ma il nostro problema principale era quello di abbattere le frontiere culturali, politiche e di comunicazione.
Internet non esisteva, la carta stampata era un onere pesante per buona parte della cittadinanza (l’analfabetismo totale si aggirava intorno al 4%, ma quello di ritorno raggiungeva numeri senz’altro maggiori), le televisioni si limitavano ai canali RAI. Insomma, fatto salvo l’apporto delle prime radio “libere”, in quegli anni sembrava che il teatro fosse la panacea di ogni male sociale: la Sinistra doveva nutrirsi di teatro, di musica, di palcoscenico, di Cultura (per quanto – spesso – raffazzonata e pecoreccia).
Oppure di ricreare palcoscenici, ovunque fosse possibile.
Per questo (quaranta anni fa o giù di lì) nacque un collettivo teatrale di strada per il quale scegliemmo (non senza una certa sofferenza) un nome significativo molto più di quanto non siano stati i lavori da esso realizzati (ben pochi, per amore di sincerità): “IL MURO E LA RETE”.
E, con arroganza tutta giovanile, pensammo bene di rincarare la dose con un sottotitolo chiarificatore ad effetto: “Un muro da abbattere, una rete da tessere…”.
E finalmente si arriva al nocciolo della questione.
Al di là di una buona dose di banalità nella proposta della traccia di “tipologia D” (in parecchi si aspettavano sbarchi, gommoni e dintorni), quello che appare un po’ triste è che nelle indicazioni fornite dal Ministero i concetti di “confine” e “frontiera” siano stati limitati ad entità fisiche – per quanto giustamente distinte – senza concedere spazio ad aperture mentali rivolte ad altri orizzonti, quindi ad una crescita – o alla dimostrazione di una crescita – dei ragazzi di oggi, quelli che grossomodo hanno la stessa età che avevamo noi negli anni ’70, quando volevamo abbattere il “MURO” e tessere “LA RETE”.
Nel 1989 è stato abbattuto il muro considerato più infame nella storia del XX secolo, e furono grandi festeggiamenti. Nel giro di 27 anni ne sono stati costruiti – o se ne stanno costruendo – innumerevoli altri. Senza che all’entusiasmo del 1989 faccia da contraltare un adeguato bilanciamento di indignazione.
Si sta andando oltre i semplici concetti di confine e frontiera, si sta andando verso la blindatura dei singoli popoli: chi è dentro è un “libero prigioniero”, chi è fuori… problemi suoi!
Ma i muri (quelli fisici) non nascono per generazione spontanea, nascono da mentalità deviate che a loro volta fanno da muro a fronte di buon senso, vivere civile e – che ci piaccia o no – globalizzazione.
Il muro deve essere abbattuto, ma questo duro lavoro deve essere affidato a menti nuove, aperte e coscienti, nel senso più profondo del termine.
Deve essere affidato ad una generazione in possesso di una coscienza nuova che solo la scuola può fornire, nel momento in cui sia in grado di proporre gli strumenti per “tessere la rete”: tra giovani, tra generi, tra generazioni, tra popoli.
“IL MURO E LA RETE”, dal punto di vista teatrale – come ho già detto – non ha prodotto praticamente niente.
Ma solo la profezia nascosta nel suo nome, a quaranta anni di distanza o giù di lì, rende merito della sua passata esistenza, e di questo sono sufficientemente orgoglioso…
Raffaele Corte (28 giugno 2016)