Con buona pace dei molti che amano passare le vacanze rosolandosi sulla spiaggia, poche semplici (ed incomplete) ragioni per amare la montagna…
È nello scricchiolare delle pedule sulle pietruzze dei sentieri o sugli arbusti secchi. È nel verso di grandi uccelli che, dagli alberi, sembrano ridere della tua fatica, della tua pochezza. È nel sudore e nel calore avvolgente del sole, così come nei brividi che il vento ti infila dentro attraverso la maglietta inzuppata.
È nella fatica (ma chi te lo fa fare?…) e nell’overdose di acido lattico che si insinua nella ginocchia, le fa stridere, tenta di bloccarle, senza riuscirci perché sai che questo non deve essere possibile, perché sai che sei qui proprio per questo: per godere di una sofferenza che non ti fa soffrire.
Una di quelle che se qualcuno te lo chiedesse – o, peggio, te lo ordinasse – non avresti altro da rispondere che “fottiti!” e che invece quassù sembra doverosa e inevitabile e piacevole.
È nella differenza tra il qualcuno e il qualcosa, e qui non c’è un qualcuno a chiedere o ordinare. C’è un qualcosa di grande che non ha bisogno né dell’una né dell’altra cosa, non ha bisogno di parole semplicemente perché “è”, e nell’essenza del suo essere racchiude tutte le parole e tutti i segreti che non aspettano altro che di essere scoperti.
È nei visi, nei corpi, negli atteggiamenti antichi di quanti questi segreti li hanno già scoperti, o quasi, perché hanno avuto la fortuna di vivere in simbiosi con essi.
Fortuna dura, amara, che spesso li fa invecchiare prima, li fa soffrire. Fortuna che non riusciamo a capire, e che spesso non capiscono neanche loro, immaginando fughe fiabesche verso le città dalle quali noi cerchiamo di scappare e alle quali – dopo – è difficile tornare, per ricominciare il conto alla rovescia che ci separa dalla prossima volta.
È nel profumo delle più inaspettate varietà di fiori come in quello del lavoro dei boscaioli, nell’odore di cucina nelle malghe come in quello della merda delle vacche, che forse non sarà piacevole, ma ha il grosso pregio di non far male come un fumo industriale.
È nella bellezza, nella maestosità, nella grandezza che dovrebbe insegnarci (ahimè, senza riuscirci) la misura del nostro essere umani.
È nella saggezza di una canzone trasportata dal vento che ripete incessantemente “Vorrei che mi conoscessi meglio: solo per la soddisfazione di lasciare che tu mi distrugga – almeno – con un po’ di rimorso!”
Raffaele Corte (13 agosto 2012)